A bordo, si parte. Come per ogni vero viaggio, metafora di avventura e conoscenza, anche per quello nell’Orient Express di Giampaolo Atzeni conta il tragitto più della meta.
Vienna, Bilbao, Parigi, l’Oriente delle moschee, delle palme, dei cammelli non sono punti di arrivo ma tappe di una immaginaria geografia dell’anima. Spazi intimi di visioni fantastiche che trasfigurano il paesaggio, riprogettano architetture dalle cromie improbabili, si popolano di enigmatiche presenze femminili.
È dipinta la partenza, il movimento. Eppure l’atmosfera è quella sognante e rarefatta del tempo sospeso, immobile. E non si capisce se l’immagine cattura l’attimo del ricordo o del desiderio. Se è passato o futuro, nostalgia o rinnovamento. O tutte queste cose assieme.
Certo aiuta sapere che l’artista è anche architetto, ha lavorato come fotoreporter in Asia e in Africa, come attore in giro per l’Europa, e poi nel settore della moda e della pubblicità. Si spiegano molte cose.
La predilezione per i colori accesi, pop. Gli accostamenti da manifesto, l’arancio, il giallo, il blu, il rosa da bambola degli incarnati.
Le scarpe rosse con i tacchi a spillo e la ricercatezza nella stilizzazione degli abiti vengono da chi ha frequentato il mondo delle top model.
Una certa teatralità nella messinscena, nelle decorazioni inverosimili degli scompartimenti, nei gesti e nelle posture, esasperate o misteriose, delle donne appartengono a chi conosce i segreti del palcoscenico.
Il taglio fotografico delle inquadrature, che procedono per scorci, dettagli.
Un paio di gambe sinuose e affusolate in primo piano, mezza valigia, un samovar e una tazzina di porcellana per il tè. L’apparizione di bellezze esotiche. Nere dai corpi muscolosi e scattanti, da brivido. E affascinanti creature dallo sguardo di velluto nascoste in uno chador. In questo caso è ancora l’occhio del reporter a guardare, l’occhio allenato a rubare il momento e a soffermarsi sul particolare.
La casa sulla cascata di Frank Lloyd Wright, il Beaubourg di Renzo Piano, le piramidi di Pei davanti al Louvre non sono che l’omaggio del giovane architetto folgorato dalla modernità ai suoi maestri.
Ma la pittura di Giampaolo Atzeni non si ferma qui. Dal punto di vista critico, si potrebbe aggiungere l’evocazione dello spirito orientaleggiante di Matisse e della morbida sensualità degli harem di Ingres. Si potrebbe parlare di reminiscenze
onirico-ironiche surrealiste. Di suggestive ambientazioni metafisiche. Di gusto pop nella definizione fumettistica dei segni e nella scelta dei colori. Soprattutto, si deve riconoscere una pittura contemporanea: che tiene conto della cultura e della contaminazione, che volutamente si complica con una personale simbologia, in apparenza ingenua e divertente, in realtà di non facile decifrazione.
Pesci stampati sulle borse, sulle tappezzerie all’interno dei vagoni, sui vestiti delle belle passeggere. Ciliegie impresse su beauty-case e tappeti.
Ancora ciliegie che diventano capezzoli e pasticcini che hanno la rotondità turgida e rosea dei seni.
Giochi di allusioni e seduzioni, a cui è bello partecipare senza porsi troppi interrogativi. Come si farebbe con l’impulso di seguire una di queste avvenenti viaggiatrici. Attratti da uno sguardo rivolto altrove e che ci ignora, da un corpo ancora senza volto, da un filo di perle che si insinua in una scollatura appena abbozzata e che ci distrae dal sorriso di lei.
Appunti da un viaggio attorno a un eros ancora tutto da scoprire.
Da immaginare o da vivere.