IL VIAGGIO DI ULISSE

GAVINA CIUSA

L’isola di sabbia, dove qualcuno ha lasciato impronta del proprio passaggio, poggia su un telo di plastica, azzurro come il mare proiettato sulla parete antistante. È il mare della spiaggia il Poetto di Cagliari. Da esso emergono e sfumano dipinti. Trattano di chi, come Ulisse, affascinato dall’avventura, si allontana dalla Terra Madre senza riuscire a liberarsi dal suo richiamo. Di chi, come Giampaolo Atzeni, in esso si identifica. Simbolicamente lo rappresenta -e si rappresenta- nel grande pesce  che, issato e legato all’albero maestro della nave, lascia l’Isola resistendo al suo canto di sirena.

Se ne allontana portandosi dentro un immaginario condizionante reinventato prima di tutto dal colore con rigoroso decorativismo. Ama Klee, Kandinsky, Matisse. Cita con espressione meno spigolosa Valerio Adami. Imprigiona memoria, viaggi, allegorie in uno spazio altro da quello intimo di partenza. In un tempo altro da quello che possiede ogni isolano. Un oltre che modula su se stesso servendosi di ogni mezzo di trasporto. Finalmente percorrendo una delle tante strade, troppo spesso disattese, indicate da quegli artisti fondatori dell’arte moderna in Sardegna che sono stati depositari a tutt’oggi ignorati di una cultura di respiro europeo.

In una sinergia tra reale e onirico,  tiene il contraddittorio desiderio di distacco e di ritorno sospeso tra identità e sempre nuovi strumenti di ricerca e ispirazione.

Aggiornamenti incessanti che nel 1973 transitano per un anno a Londra, dove Atzeni compie i primi passi nella grafica e nella fotografia. Quindi, a Firenze, frequenta la Facoltà di Architettura e fa parte del gruppo internazionale del Terzo teatro e del laboratorio Domus de Janas, Casa di fate, che elimina la recitazione a favore dell’expression corporelle. Quattro anni, dal 1975 al 1978, in giro per l’Europa. Grecia, Spagna, Danimarca. Poi cambia pagina di nuovo. Nel 1979 trascorre in Africa sei mesi e altri in Oriente. Fa il reporter. Raccoglie appunti fotografici per i giornali. Dice:

“Dopo 20 anni una foto è storia. La documentaristica è più importante dell’artistica. Blocca l’anima delle cose.”

– Quando cominci a dipingere?

“A 14-15 anni. Nessuno in casa si occupava d’arte ma io mi perdevo nei libri. Frequentavo la scuola per geometri e dipingevo di notte, di nascosto. Sono partito dall’astratto, dal geometrico, dal rifiuto totale dell’immagine. Cercavo il colore che fa sentire il calore delle cose, e domina sia nell’assenza che nella presenza. Come in musica, la pausa è importante quanto la composizione. L’Isola mi costringeva in un luogo che non dava spazio. L’esigenza di guardare oltre mi ha spinto ad andar via.”

– La tua attuale espressione pittorica come nasce?

“Nei primi anni Novanta mi occupavo di arredamento tenendo in sordina l’esigenza di fare il pittore. A farmi capire che non potevo sfuggire la mia realtà, e a spingermi verso un impegno professionale, è stato mio suocero, l’artista ligure Ernestino Mezzani.”

-Oggi come ti definisci?

“Un creatore d’immagini che sceglie il mezzo d’espressione a seconda del momento, seguendo l’impeto contemporaneo senza rifiutare niente del trascorso. E senza tralasciare le esperienze di grafico, di pubblicitario, di fotografo, di architetto. La pittura è importante. È il ritorno alla giovinezza.”

Nelle tele di Atzeni curiosità intellettuali e sentimentali sono incessantemente fecondate da un singolare cucchiaino con manico guizzante, codice originario e cellula germinale agente qua e là, abbandonato con nonchalance tra gli oggetti rituali del the, vicino a teiere che perdono ovvietà per quel becco che si allunga nell’aria, tentacolo tattile nato dalle acque. Immaginario erotico accostato a inquietanti connotazioni di un femminile che quasi mai mostra il volto per intero. Un taglio elimina gli occhi. Il flash si accende su labbra, cuori, seni.

Su nudi e loro metamorfosi in chitarra, viola, lira. Su scarpe con tacco e gambe -Le gambe di Venere- che, insieme al portamento, sono essenza di femminilità. Divagazioni tra cammelli, piramidi, icone della Gioconda, tori infilzati da banderillas, banane, fiori, serpenti, tigri, cavalli, fenicotteri, palme, piramidi, fichi d’india, architetture orientali, simboli e monumenti nuragici, Bilbao, Babilonia, Nirvana… nel divenire incessante incorniciato da finestrini di treni e da oblò di navi in movimento. Soprattutto incombe la presenza condizionante del mare, insinuante ritoccatore dell’arcaico roccioso dell’Isola Madre.

Visitatore di meandri scavati dal tempo e dalla tempesta. Via di fuga, di comunicazione, di unione. Simbolo di imprevisto dove Atzeni si afferma presenza firmandosi pesce rosso. Dunque domestico abitatore di bocce di vetro e, insieme, protagonista di avventure che eccedono l’apparente, sotto cieli metafisici di improbabili cromie.

testo tratto dal catalogo “TERRART