Spartaco Gamberini

Quando venne suggerito che facessi una presentazione in catalogo a Gampaolo Atzeni, obbiettai che i miei interessi si muovono verso i campi della linguistica, dell’analisi letteraria, non delle arti visive. Al che Paolo Atzeni ha dichiarato senza esitare: Ma la mia pittura è letteratura. Si tratta ovviamente di una battuta, ma le battute non sono mai innocenti, convogliano sempre un significato secondo, e fu proprio pensando a queste sue parole, che decisi di accettare questo invito.

Ora, io non ho una conoscenza di Paolo tale che mi permetta di ricostruire il suo percorso artistico. Ad esempio, non so come sia giunto alla fotografia; o alla elaborazione elettronica dell’immagine; non conosco il percorso che lo ha portato alla pittura, e in quella pittura, all’acrilico, o a quel singolare lessico iconico che usa per comporre i suoi quadri. E tuttavia mi è sembrato di potere individuare un

epoca della sua vita che rende possibile una interpretazione della sua vicenda pittorica. Nella prima giovinezza Paolo ha girato il mondo come attore in una compagnia sperimentale di teatro. Sono stati anni durissimi e meravigliosi, impegnati in un lavoro d’avanguardia, e quella esperienza viene trasmessa alla sua pittura, perché nei suoi quadri egli sembra soprattutto interessato a proporci scene di un teatro. Egli crea una realtà per lo più di interni, nei quali mette non persone ma personaggi: di qui le interpretazioni della Gioconda, della Donna con l’ermellino, della Venere allo specchio di Velazquez. Di qui certi paesaggi africani e certe spiagge chiaramente confinate in una scenografia teatrale. Persino nella serie del treno, gli scompartimenti somigliano molto ai suoi salotti e alle sue camere da letto; il paesaggio che si vede dai finestrini è dato si dal Beauburg, dalla Casa sulla cascata, dalle piramidi del Louvre, dal museo di Bilbao, ma in realtà i finestrini non servono per guardare il paesaggio che scorre al di fuori, ma a formare le cornici di quadri che ci propone.

 Se poi si guarda al modo in cui dice queste cose, direi che uno degli aspetti più immediati sia la decorazione. In tutti i suoi quadri Atzeni racconta la propria decorazione, fatta di colori intensi, in cui gli elementi che decorano sono nastri, tappeti, arazzi, tendaggi, carte da parati. E in questi elementi i simboli che più si affollano sono pesci, note musicali, onde, cavallucci marini, teiere, tazzine, cactus e cammelli stilizzati. A un livello superiore di significazione ci sono simboli femminili, seni, gambe, labbra, e certi feticci ricorrenti, scarpe, babbucce, borsette, valigie. La decorazione diventa così uno degli elementi caratterizzanti la sua pittura.

Questo traboccare di belle cose, in cui trionfa il colore, l’eleganza, l’esotismo, l’erotismo, il superfluo, che a volte va verso il bric-brac delle suppellettili, ancora non dice che cosa significhi, Paolo Atzeni, con questo rutilare di forme e di colori. A me è avvenuto di notare che i suoi quadri difettano di uomini. E quanto alle donne, spesso sono sole, talvolta sono a coppie, in conversazioni in cui domina un silenzio un poco ambiguo. La mia impressione è che Atzeni esprima una assenza, una mancanza. A me sembra che in realtà Atzeni sia ‘a rolling stone’, una pietra che rotola, e come dice il proverbio gallese, «a rolling stone does not gather moss», una pietra che rotola non raccoglie muschio. Egli ha viaggiato come uomo di teatro, la sua memoria conserva spezzoni di ricordi, spesso esotici, ma quella vita vagabonda non gli ha permesso di portarsi dietro cose ingombranti, e piuttosto una cartolina da un luogo, un soprammobile da un altro, uno scorcio di donna in albergo, una piscina senza bagnanti, il deserto con qualche cactus o cammello, stilizzati. E di tutte queste esperienze ha fatto una bella festa, componendo e scomponendo quegli elementi che la memoria conserva, con colori e figure che danno insieme la sua vita intensa ma anche il suo essere in una solitudine.

 Dato che mi tengo a cose letterarie, azzardo il nome di alcuni scrittori a cui la pittura di Atzeni può essere ricondotta. Direi che per lui bisogna andare a quello che viene chiamato il teatro dell’assurdo, e che ha come numi tutelari Ionesco, Beckett, Camus, Genet, Pinter. Ciò che li unisce è un’arte elitaria, sofisticata, preziosa, che gioca con le aporie della logica, che ama stupire, che del mondo ritrae i paradossi, e qui si va a epoche barocche, eufuiste, metafisiche, manieriste, si va alla agudeza, al wit, al conceit, alla meraviglia….. ho infilato questi termini come perle in una collana, ma se volessi sintetizzare in una sola figura la qualità della pittura di Atzeni, sceglierei quella dell’ossimoro. Il silenzio dei suoi personaggi è clamoroso; le sue donne si negano nel momento in cui si offrono, il suo viaggiare ha per confini una stanza; le sue piscine non contengono nuotatori ma pesci rossi, il suo occidente rivela una nostalgia dell’oriente. L’ossimoro unisce termini contraddittori. E questa definizione mi sembra una buona chiave per la lettura dell’opera di Paolo.

Spartaco Gamberini